Sudan and conflicts zones.

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Tuesday, 16 February 2010

Bambini soldati!!!!



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Quei bambini soldato Uno di loro si racconta -->
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Inviato da redazione il Lun, 15/02/2010 - 17:45

Giuliano Rosciarelli

INTERVISTA. La drammatica testimonianza di John Onama, guida dell’esercito ugandese quando aveva 14 anni. Ora vive e lavora a Padova, dove insegna Europrogettazione alla facoltà di Scienze politiche. Ha 44 anni ma non può dimenticare quanto ha vissuto: «Ancora oggi faccio fatica a sognare un mondo perfetto, come facevo quando ero piccolo. Credo nella possibilità del cambiamento ma vado avanti giorno per giorno. Non riesco a guardare lontano».
A quattordici anni già conosceva la morte, guidava un plotone di 70 soldati, scovava ribelli nelle immense campagne ugandesi. Sapeva smontare e rimontare un kalashnikov in pochi minuti, sparare e nascondersi, ma non ha mai dimenticato che quella non era la sua vita e che prima o poi tutto sarebbe finito. John Baptist Onama è solo uno dei tanti bambini vittime dei conflitti che insanguinano le terre africane. Strappato dalla sua vita e diviso dalla famiglia venne “reclutato” per fare da guida al Terzo plotone della 13esima Brigata compagnia C dall’esercito governativo, una squadra nata per scovare i ribelli che si nascondevano nei campi fuori della città di Moyo, in Uganda a cinque chilometri dal confine con il Sudan.Era il 1979 e un colpo di Stato aveva da poco destituito il dittatore Amin (che a sua volta aveva fatto cadere il governo guidato da Milton Apollo Obote). Al governo del Paese si era insediata la Coalizione provvisoria nazionale presieduta da Yusuf Lule. Le tensioni interne, tuttavia, non si erano attenuate e il 13 maggio 1980 un nuovo colpo di Stato militare riportò al potere Obote, costretto comunque a fronteggiare diversi gruppi di guerriglia, fra cui le milizie ancora fedeli ad Amin. John ora ha 44 anni, vive e lavora a Padova dove insegna Europrogettazione alla facoltà di Scienze politiche. Come sei entrato a far parte dell’esercito?Nel 1979 con il colpo di Stato che pose fine alla dittatura di Amin scappai con la mia famiglia in Sudan. Mio padre era un politico durante la prima Repubblica nata dopo l’indipendenza. Dopo alcuni mesi passati in un campo profughi, sono voluto ritornare in Uganda per finire le scuole. La situazione sembrava normalizzata. Mio padre e mia madre rimasero in Sudan, io fui accolto da un’amica di famiglia. Dopo nemmeno un anno, scoppiò un nuovo conflitto. Nessuno si poteva salvare, i soldati entravano nelle case e facevano razzia di ogni cosa, per le strade c’erano morti ovunque. Durante una retata venni scovato insieme a mio fratello nella soffitta della casa in cui vivevo. I soldati ci risparmiarono la vita solo perché conoscevamo bene il territorio e a loro servivano delle guide. Venni portato nel quartier generale, interrogato e addestrato per tre giorni alla guerra. Il kalashnikov è un’arma facile da utilizzare anche per un bambino. Siete stati maltrattati? Non fisicamente. Più che altro fu una violenza psicologica. Quando ci hanno catturato, ci dissero che ci avrebbero fucilato. Non abbiamo pensato nemmeno un minuto a un bluff. C’erano cadaveri ovunque, nelle strade, nelle case, era in atto una guerra di pulizia etnica e quindi non c’era molto da scegliere. Sei stato coinvolto in azioni di guerra? Hai mai dovuto sparare? È il prezzo che si deve pagare per sopravvivere. Il mio plotone era nato per scovare i ribelli di Amin che si nascondevano nelle campagne e facevano agguati continui. In quei casi non hai molte alternative: o vivi o muori. Le guerriglie venivano combattute da gruppi di 5-6 persone, o anche di 2-3 a volte. Eravamo spesso sotto il tiro dei cecchini annidati nella foresta. Quanto è durato il tuo reclutamento? In tutto circa due anni, ma non continuativamente. Un primo periodo è durato circa un mese, da metà ottobre del 1980 a metà novembre. Il mio compito era scovare tracce nei sentieri. Si partiva la mattina molto presto, perché gli attacchi dei ribelli coincidevano con il suono delle campane. Allora si partiva prima, si seguiva quello che riuscivamo a captare, si pattugliava il perimetro dell’area e si andava avanti fino all’ora di pranzo, poi c’era una piccola pausa pranzo, riposo al pomeriggio, poi si ripartiva fino a sera. Prima del tramonto del sole si trovava un posto per dormire. Dopo fui rispedito al quartier generale dove facevo vita da caserma anche se non ero ufficialmente arruolato e non percepivo alcuno stipendio. Ricominciai a studiare presso la missione dei comboniani. Provai a fuggire nuovamente in Sudan dalla mia famiglia ma fui ripreso dall’esercito e rispedito al quartier generale. E poi? Mi fu affidato un compito diverso: dovevo sorvegliare l’attraversamento del Nilo dove c’era un traghetto, che era l’unico modo di comunicazione tra la sponda occidentale e orientale. Il quartier generale era sulla sponda orientale e questo metteva un po’ a rischio i rifornimenti. C’erano pattugliamenti nelle vicinanze. Questa seconda esperienza è durata da marzo fino ad agosto del 1981. Perché usano i bambini? Le motivazioni sono diverse caso per caso. In generale però bisogna dire che obbligare i bambini a fare la guerra è più facile che usare gli adulti. I bambini si abituano subito alle situazioni. Se ne danno una giustificazione e non avendo strumenti per capire o persone vicine, quella per loro diventa la normalità. Non avendo alternative quello che ti viene presentato ogni giorno davanti agli occhi pensi sia la vita reale. Pensi che ciò che stai facendo sia giusto. Addirittura ti senti importante. Io fortunatamente non ho mai dimenticato che quello non era il mio posto e che prima o poi ne sarei uscito. È possibile farsi delle amicizie in quei contesti?Noi guide eravamo molto considerate dai soldati. In più occasioni il nostro intuito e la conoscenza del territorio hanno salvato molte vite, per questo eravamo trattati piuttosto bene. In alcuni momenti arrivi quasi ad amare i tuoi “carcerieri” e quando qualcuno di loro muore provi anche dolore. Come ci si abitua alla morte? Per noi africani non c’è bisogno di una guerra per capire la morte. Da noi si muore presto per qualunque cosa. La morte diventa parte integrante della vita. Più difficile è abituarsi alla violenza. A quella non ci si abitua mai. Come sei riuscito a fuggire?Sono andato via dall’Uganda nel 1989 grazie all’aiuto dei padri comboniani. Sono stato prima accolto in una famiglia italiana poi ho cominciato a lavorare e a guadagnare i soldi per proseguire gli studi e laurearmi. E la tua famiglia?Fino a poco prima di arrivare in Italia non avevo visto più nessuno. Ai miei genitori era stato detto che eravamo tutti morti. Ma ora mio padre non c’è più e mia madre è ancora in Sudan. Sono passati trent’anni. Come si supera una storia come questa? Non sono mai riuscito a superarla veramente. Ancora oggi faccio fatica a sognare un mondo perfetto, come facevo quando ero piccolo. Credo nella possibilità del cambiamento ma vado avanti giorno per giorno, dando importanza alle piccole cose. Non riesco a guardare lontano. In questo mio percorso mi ha molto aiutato la fede. Come hai fatto a dare un senso a quanto accaduto? Utilizzando la mia esperienza come una occasione per aiutare il mio Paese e l’Africa. Vado in giro a raccontare cosa accade in quelle terre sensibilizzando l’Occidente, mettendolo di fronte alle sue responsabilità. Non è stato facile. Per vent’anni non ho mai parlato di quanto accaduto. Nessuno conosceva la mia storia. Ancora oggi, quando mi trovo a parlare di fronte a una platea, spesso faccio fatica.
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Anche in Darfur il Jem ha usato bambini.......................................azim

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