مقتل شخص على الأقل في اشتباكات بمدينة أبيي السودانية
قال مسؤول في منظمة الأمم المتحدة إن شخصا واحدا على الأقل قُتل وأُصيب آخرون بجروح خلال اشتباكات جرت اليوم الجمعة في مدينة أبيي السودانية الغنية بالنفط والتي كانت قد شهدت خلال شهر مايو/أيار الماضي أعمال عنف صعدت من حدة المخاوف من عودة الحرب الأهلية بين الشمال والجنوب.
وأضاف المسؤول الدولي قائلا إن القتال نشب بين أفراد تابعين للوحدات المشتركة بين الجيش الشعبي لتحرير السودان وقوات الشرطة الحكومية. أعمال عنف
ولفت الانتباه إلى أن الاشتباكات هي أول اندلاع لأعمال العنف في مدينة أبيي منذ مقتل العشرات خلال المواجهات الدامية والواسعة التي كانت قد اندلعت بين القوات الشمالية والجنوبية في شهر مايو/أيار الماضي. لكنه لم يوضح إن كان الضحايا من الشماليين أم من الجنوبيين.
وقال المسؤول، الذي رفض الكشف عن اسمه، إن الاشتباكات اندلعت في سوق أبيي المركزي في الساعة 12.30 بالتوقيت المحلي (0930 بتوقيت جرينيتش)، إلا أنه لم يعط تفاصيل أخرى عن أعمال العنف التي دارت في المكان.
إلا أن وكالة الأسوشييتد برس للأنباء أفادت بأن اثنين من عناصر الشرطة الحكومية قُتلا في الاشتباكات التي اندلعت في المدينة.
وقالت الوكالة إن الخلاف نشب بين عناصر القوة المشتركة عندما رفض صاحب ملحمة عربي نقل عمله إلى مكان آخر في سوق البلدة الجديد، لا بل أقدم على طعن شرطي كان يتجادل معه بشأن القضية. "سوء تفاهم"
ونقلت الوكالة عن مختار بابو نمر، وهو زعيم إحدى العشائر العربية في أبيي، قوله إن الشرطي نُقل إلى المستشفى، إلا أن أعمال العنف تواصلت بسبب "سوء التفاهم".
وأضاف نمر قائلا: "قام عناصر الشرطة بإطلاق النار في الهواء بغية تفريق الحشود، فرد عليهم الجنود المنتشرون في المنطقة ظنا منهم بأنهم كانوا مستهدفين بهجوم".
إلا أن أحد شهود العيان روى للوكالة أن أفرادا تابعين للقوة المشتركة المذكورة اختلفوا بشأن حل قضية الملحمة، فنشب قتال بين الطرفين أسفر عن مقتل شرطيين.
وجاء في بيان صادر عن رئيس بعثة الأمم المتحدة في السودان، أشرف جيهانجير قاضي، بشأن التطورات في المنطقة، إن المنظمة الدولية تأمل بألا تؤدي الاشتباكات إلى عرقلة تطبيق الاتفاقية التي تم التوصل إليها مؤخرا بشأن حفظ الأمن في أبيي. "خارطة طريق أبيي"
وقال قاضي: "إننا نحث الأطراف المتنازعة بقوة على اتخاذ كافة الإجراءات الضرورية لتجنب حدوث المزيد من أعمال العنف في المنطقة ولضمان ألا تؤدي أحداث اليوم إلى عرقلة تطبيق اتفاق السلام في المدينة والذي عُرف باسم "خارطة طريق أبيي".
وتأتي هذه التطورات في أبيي بُعيد أيام فقط من إعلان الحكومة السودانية أنها أرسلت قوات إضافية إلى ولاية جنوب كردفان المضطربة والغنية بالنفط، إذ كشف الجيش السوداني أن لديه معلومات عن وجود خطط لجماعة متمردة بمهاجمة المنطقة.
وجاء الاعلان الحكومي السوداني عقب اتهام مسؤولين في تلك الولاية الحكومة في الخرطوم بتصعيد الوجود العسكري للجيش في المنطقة خلال الأسابيع الأخيرة، إذ قال هؤلاء إن تكثيف التواجد العسكري ينتهك اتفاقية السلام الموقعة في عام 2005 بين جنوب السودان وشماله. حالة توتر
وكانت الحكومة السودانية قد اتهمت مؤخرا حركة العدل والمساواة المتمردة في دارفور بقيامها الشهر الماضي بقتل خمسة من الرهائن الصينيين وإصابة اثنين آخرين منهم بجروح قبل ان يتمكنا من الإفلات من خاطفيهم.
يُذكر ان العلاقة بين شمال السودان وجنوبه ظلت في حالة من التوتر منذ التوقيع على اتفاق السلام الشامل عام 2005. وكانت من نتيجة هذا التوتر وقوع مواجهات بين القوات الحكومية وقوات الجيش الشعبي لتحرير السودان، المطالب بحكم ذاتي للجنوب.
وتشير الأرقام الحكومية إلى أن معدل الإنتاج النفطي في المنطقة يبلغ نحو نصف مليون برميل يوميا، ومن المؤمل أن يرتفع إلى 600 ألف برميل العام المقبل. اتفاق أبيي
ويقضي الاتفاق بشأن أبيي بضرورة تفعيل بند الترتيبات الأمنية فيما يتعلق بانتشار القوات العسكرية شمالاً وجنوباً، وتأليف إدارة مؤقتة للمنطقة من الطرفين، وتحديد مهلة لوضع حل نهائي للأزمة، والنظر في الوضع الإنساني لإعادة الحياة إلى المدينة وعودة النازحين إليها.
وقد تكبد الطرفان خسائر عسكرية ثقيلة في المعارك التي اندلعت في شهر مايو/أيار الماضي، بعد أن هاجم مسلحو الحركة الشعبية لتحرير السودان المنطقة، كما قُدر عدد من فروا من الاشتباكات بحوالي 50 ألفا.
وكانت الإدارة الجنوبية قد أثارت غضب الحكومة في الخرطوم عندما عينت حاكما للمنطقة، فكان أن بعث الشماليون بمئات الجنود إليها.
يُشار إلى أن تبعية أبيي لأي من الشمال والجنوب تُعد قضية شائكة لم يحسمها اتفاق السلام الموقع عام 2005، حيث اكتفى الجانبان بالاتفاق على تشكيل إدارة مشتركة للمنطقة التي تقدر قيمة الثروة النفطية فيها بمليارات الدولار
La Dottrina Obama riparte dal Darfur e dall’umanitarismo clintoniano
Anna Di Lellio12 Dicembre 2008
Gli ideologi della politica estera di Bush stanno già cercando di enfatizzare la continuità con l’amministrazione Obama. Assimilano l’interventismo umanitario che si sta profilando come caratteristico del nuovo team alla promozione della democrazia sostenuta dei neo-conservatori. Di fronte al fallimento completo della “Grande Strategia” bushiana, il tentativo è di salvare il salvabile, sottolineando le similarità e attribuendo le sconfitte a errori contingenti, come fa Robert Kagan nell’ultimo numero di "Foreign Affairs". Ma non potrebbero esserci differenze più profonde tra le due politiche.
Obama ha formato una squadra di politica estera che presenta elementi di continuità – se di continuità vogliamo parlare – con l’amministrazione di Bill Clinton. A far da contrappunto a questi veterani c’è solo Robert Gates, Ministro della Difesa, e il generale James Jones, National Security Advisor. Ma queste due figure autorevoli nel campo repubblicano non sono mai state degli ideologi, preferendo un approccio realista e moderato alla politica estera. Saranno loro a frenare gli entusiasmi interventisti nella crisi del Darfur, tanto per menzionare un punto caldo nel mirino dei falchi liberali. L’orientamento del resto della squadra e della pletora di consiglieri autorevoli del Presidente Obama è infatti tutt’altro che moderato.
Susan Rice, ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, ha chiesto da tempo
una posizione più decisa dell’ONU e degli USA sul Darfur, incluso l’intervento militare, dai bombardamenti al blocco navale che strangolerebbe il commercio del petrolio grezzo di cui il Sudan è gran produttore.
Hillary Clinton, nuovo Segretario di Stato, ha parlato durante la campagna elettorale di un uso di truppe NATO per stabilire una “no-fly zone” sull’area dove il governo Sudanese ha effettuato i bombardamenti più devastanti. L’anno scorso Joe Biden, vice-presidente, disse in un’udienza del Senato sul Darfur che lui sarebbe stato pronto “a usare la forza degli Stati Uniti immediatamente”. Nel frattempo non ha cambiato idea.
Le motivazioni per intervenire in Darfur sono morali e legali e non hanno nulla in comune con l’intervento in Iraq. Il problema del Darfur non sono le armi di distruzione di massa; l’obiettivo non è cambiare regime per costruirne uno nuovo e più democratico nell’illusione di stabilizzare la regione circostante; l’intenzione non è di diffondere la democrazia usando i mezzi più illiberali possibili, dalla tortura all’impunità per i torturatori. In Darfur, da circa cinque anni il governo sudanese sta commettendo crimini contro l’umanità, e lo scopo di un intervento Usa sarebbe di bloccarli. Non si tratterebbe quindi di una guerra di aggressione, perché la legge umanitaria internazionale riconosce implicitamente il dovere degli stati di prevenire o fermare tali crimini. Una norma emergente fin dal 2000, la “responsabilità di proteggere,” costituisce come dovere morale la spinta all’intervento in caso di gravi crisi umanitarie. Questa norma è pienamente accettata da Susan Rice, Hillary Clinton e Joe Biden, ma anche da altri democratici autorevoli.
Ieri l’ex-presidente Jimmy Carter ha pubblicato un editoriale sul Washington Post che si legge come una lettera aperta al Presidente Obama in cui si chiede di ristabilire l’autorità morale degli Stati Uniti nel mondo, adottando una politica estera basata sui diritti umani oltre che la democrazia. La lista di azioni da intraprendere è, in parte, già nell’agenda di Obama, dalla chiusura del vergognoso centro di detenzione di Guantanamo al ripudio della tortura. Ancora più specifico di Carter è il rapporto appena pubblicato dalla Task Force sulla Prevenzione del Genocidio. Sotto la guida di Madeleine Albright e William Cohen, due veterani dell’amministrazione Clinton, la Task Force ha messo insieme un gruppo di esperti democratici e repubblicani per mettere a fuoco il problema dei genocidi come priorità nazionale e proporre soluzioni a livello istituzionale e politico.
L’idea è di istituire una Commissione ad alto livello per la “Prevenzione delle Atrocità”, composta da membri del Dipartimento di stato, della difesa, del tesoro, della giustizia, dell’intelligence, dell’Agenzia per lo sviluppo (AID) e dell’esercito. Diretta da un membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale e dall’assistente segretario di stato per la democrazia, i diritti umani e il lavoro, la Commissione dovrebbe avere un collegamento diretto con il Presidente. Il suo mandato sarebbe di monitorare le crisi umanitarie nel mondo e proporre politiche di gestione e soluzione, con un’enfasi sulla diplomazia fino all’intervento militare.
Difficile trovare punti di contatto tra questo modo di pensare e la “Grande Strategia” bushiana che lascia il mondo più insicuro, l’America più indebolita sulla scena internazionale, e il Medio Oriente più instabile, riconfigurato sotto la potenza emergente dell’Iran. In ogni documento, articolo, e riflessione del campo di Obama si parla di diritti umani, democrazia, multilateralismo e leadership come di un pacchetto di concetti, non come un menu da cui scegliere liberamente a seconda delle circostanze.
La nozione di “responsabilità” nella protezione dell’umanità dal capriccio di leader che si sono macchiati di genocidio non ha mai fatto parte della “Grande Strategia” di Bush. In quella che è stato definita “l’intervista di uscita” del segretario di Stato Condoleeza Rice emerge una miseria di idee e pochissima responsabilità. E’ vero che esiste un consenso quasi unanime tra gli analisti americani sulla mediocrità della Rice ma le sue affermazioni lasciano comunque perplessi. Sul Darfur dice: “Ho dei rimpianti. Ma non so se ci fossero delle riposte diverse (dall’inazione, nda). Il presidente prese in considerazione l’idea di un intervento unilaterale – molto difficile a farsi”. E sulla responsabilità di proteggere, sempre nel caso di Darfur, la Rice sostiene che non si è trattato altro che di parole, ma solo per colpa del Consiglio di Sicurezza.
Da Obama e dalla sua squadra di politica estera l’America, e il mondo, si aspettano competenza e leadership. Le idee ci sono. Si vedrà tra breve quali saranno i fatti. Intanto perfino l’Economist chiede a Obama di rilanciare l’intervento umanitario e di ricostruire la leadership morale dell’America. Da dove cominciare? Congo e Darfur sono due buoni candidati, sempre secondo l’Economist. Se il Consiglio di Sicurezza non approvasse l’intervento, gli USA potrebbero e dovrebbero intervenire senza autorizzazione, magari sotto l’ombrella della NATO, come fece Clinton in Kosovo nel 1999. Dopotutto, a Washington, gli attori di questa nuova impresa umanitaria sono gli stessi.