Gli atleti del Sudan control'iniziativa di Mia Farrow
GIULIA ZONCA
Se si ingrandisce il punto sulla cartina agitata dagli attivisti in cerca di boicottaggio, compare uno stadio disastrato agibile solo per metà. È la pista di Khartoum, Sudan, il centro del mondo per chi smania in difesa dei diritti umani. Il principale gruppo impegnato a infastidire la Cina, quello di Mia Farrow e delle proteste anti torcia, si chiama Team Darfur, nasce da una nobile causa e raccoglie fondi per aiutare persone disastrate, ma i manifestanti, prima di continuare una strada di certo utile, farebbero bene a staccarsi dalla cartina e a buttare un occhio sui pesi artigianali fatti con le pentole riempite di cemento, alle scarpe con i chiodi arrivate dal volontariato britannico, alle stanze prefabbricate costruite posticce davanti alla struttura che ha solo un’entrata buona perché le altre sono piene di macerie. È il mondo precario in cui si muovono gli atleti che rappresenteranno il Sudan ai Giochi, molti di loro in Darfur ci sono nati e non ne possono più di sentirsi «usare per chiedere un boicottaggio che qui nessuno vuole». Ismail Ahmed ha già vissuto una finale, ad Atene 2004, si allena sugli 800 metri per farne un’altra. Appartiene alla tribù Fur, una delle più massacrate, la sua famiglia viene dalla zona di guerra e lui non ha bisogno di gesti di protesta. «Io voglio portare la bandiera del mio Paese, una, l’unica. A nessuno è venuto in mente che un posto così spaccato potrebbe sentirsi più unito davanti a una medaglia?». È già successo, a marzo, quando Abubaker Kaki Khamis, un ragazzino di 18, ha vinto gli 800 metri ai Mondiali indoor di Valencia: è stato uno dei rari giorni in cui non si è sparato. Il presidente Omar-el-Bashir, per una volta, è stato il capo di tutti mentre accoglieva l’eroe al ritorno. Gente per strada in città dove in media preferiscono stare nascosti e una canzone per celebrare la speranza del Sudan ai Giochi Olimpici. Di musica non se ne sentiva da un po’. Lui cerca di evitare la politica anche se la porta scritta nel suo albero genealogico, tribù Misserya, l’etnia dei primi ribelli e dei primi assassini. Dorme nella stessa baracca dell’altro ottocentista anche se a guardare le origini dovrebbero odiarsi: «Invece siamo amici e entrambi sappiamo che fare bene a Pechino significa poter aiutare le nostre famiglie. Forse è la sola opportunità che avremo per costruirci una casa decente. Lasciateci correre in pace». A oggi, ci sono 7 atleti sudanesi qualificati alle Olimpiadi, il tecnico che li segue Jame Aden, un inglese con radici somale, spera di portarne 12 in Cina. Ha passato 6 anni a cercare gambe buone, in mezzo alla guerra, ha trovato una sponsorizzazione con la Nike per i 5 corridori più bravi, si incarica di recuperare tute e maglietta tramite le charities di Londra e l’idea che qualcuno voglia mandare a rotoli il lavoro di una vita lo deprime: «Questi faticano a 40 gradi perché quando scende il sole non possono più usare la pista, non abbiamo luci. La metà dei ragazzi viene dal Darfur e vivono perché questo nome possa essere associato a qualcosa di buono, a una grande impresa. In Occidente sanno solo parlare di genocidio. Qui apprezzano ogni aiuto, ma non li si può pensare solo legati al disastro. Guardate il Kenya e l’Etiopia, sono nazioni povere che hanno avuto molti aiuti dai loro campioni. Hanno creato un movimento, luoghi per allenarsi che hanno chiamato altri atleti e fabbriche e soldi. Invece c’è chi urla: boicottiamo i Giochi per il Darfur. Sarebbe contro il Darfur». Rabah Yusuf è un quattrocentista, potrebbe vivere a Middlesborough con la moglie invece sta a Khartoum e si prepara con i suoi compagni, «neanche lo so da che tribù vengono, so che siamo una nazione e che tra quattro mesi ci sono i Giochi». Sul conflitto, sui morti, sulle armi che arrivano da Pechino finge di non avere dettagli, sa di essere scampato a situazioni tragiche («Sono fortunato») e non ha intenzione di schierarsi «e se non sento il bisogno di farlo io perché se ne deve incaricare qualcuno che non sa neanche dove è il mio Paese?». Corrono avanti e indietro sui 200 metri, il giro di pista è impossibile, c’è tutto un lato con il terreno sollevato «forse tra un po’ riusciamo ad allungare il percorso, certo se arrivassero medaglie manderebbero qualcuno a sistemare l’anello. Se ci imbarazza andare in Cina? La Cina è dove ci sono le Olimpiadi, è dove vogliamo andare».
Boicottaggio e dificile quando questi giovanni hanno strada per realizzare qualcosa ora nel sport Olympico..........................................................................................................................................Azim
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